1 Maggio 2024

di Roberto Minnocci  – 

“Una visita al Cimitero Americano di Nettuno, per scoprire il nostro passato.”

Pic 188C’erano solo tre parole, “American Cemetery Memorial”, sulla sommità dell’imponente cancello, oltre il quale si respirava una sensazione di eternità, che scivolava tra le ninfee e l’acqua scura appena increspata dalla sera, coprendo il rumore delle scarpe sui ciottoli. Lo sterminato verde, curato nei minimi particolari, e la linearità delle croci che si allungavano in tutte le direzioni, staccavano improvvisamente sul bianco appena soffiato dal vento, in mezzo alle voci ancora acerbe dei ragazzini accoccolati intorno alla guida. Veronica parlava, e loro ascoltavano. Con le facce fresche e gli occhi colorati dai pochi anni, seguendo il ricordo di quel luogo così silenzioso, custode di mille storie sconosciute. La casa di soldati in bianco e nero perduti nel tempo, trasformati per sempre in un freddo nome inciso sulla pietra. E c’era una sottile linea comune, tra i ragazzi con le bocche spalancate e il racconto, un filo invisibile che li accomunava: il baseball! Che aleggiava leggero nell’aria, come una carezza. Mentre lievi brividi di freddo e una piccola squadra, chiamata Academy, si lasciavano trasportare nella suggestione di quel momento. Con i numeri sulla schiena, e già consapevoli che non può esserci futuro senza la memoria del passato. Nettuno, la guerra, e la voce narrante, che provava a dare un senso al sacrificio di quegli uomini, che insieme alla libertà hanno lasciato in pegno a questa terra anche il baseball. Chissà quanti di loro avrebbero continuato a giocare, agli ordini del coach John Messina, e chissà se adesso Alessandro, Enrico, Federico, Matteo, oppure Gabriele, Leonardo, Andrea, Manuel, e anche Gabriele, Federico, Luca, Filippo, Marzio, sarebbero stati qua, in divisa da gioco, protagonisti virtuali delle immagini evocate dal racconto. E allora la mente volava via, verso il cielo chiazzato di viola, oltre il tempo, come una palla cucita che se ne và sopra lo steccato. Con le stesse passioni di sempre, un guanto di cuoio, una corsa verso casa. Ma quanti non son più tornati a casa, e son rimasti qua, ad aspettare un altro fuoricampo. Un’altra partita, senza le sagome dei cannoni. Fino al suono di una campana, che accompagnava i ragazzi verso la cappella, con gli infiniti nomi ordinati in colonna. E poi le mappe colorate. Gli uccelli che volavano verso il tramonto. Un bouquet di fiori sotto le statue dei “Fratelli”. E ancora, le ghiande cadute fra i viali. Le siepi disperatamente squadrate. Ma anche le corse spensierate dei più piccoli. Le bandiere pettinate dalla brezza salata. Una rosa piegata dal sole. E infine il momento solenne dell’ammainabandiera, con lo sguardo proteso all’insù. Mentre il drappo a stelle e strisce si afflosciava tra le mani ansiose, ripiegato dal team Academy, come una reliquia. Senza mai sfiorare la terra. Come fossero veri marines. Come fossero veri eroi. Un’ultima foto, insieme a Gianni, a Fabio, e alla sua maglietta celebrativa della finale. Poi di corsa verso il ritorno. Sperando che non sia stato tutto invano, e che riusciremo a meritarci questo dono. Camminando senza parole. Con un velo di tristezza, ma con il cuore più leggero. Con le note del silenzio che ammutolivano il respiro, sotto il cappello blu appoggiato sul petto. Mentre le ombre si allungavano tra le croci, fino a coprire i nostri pensieri!

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