di Roberto Minnocci –
“Il baseball visto con gli occhi di Gianni Ricci, da ieri fino a oggi.”
Continuiamo il viaggio, per conoscere le storie dei tanti personaggi che popolano l’ambiente del Baseball Youth. Quando incontri Gianni Ricci, resti colpito dalla sua tranquillità, oltre che dalla sua competenza, acquisita attraverso anni di battaglie sui campi da baseball. Oggi si dedica ai giovani, ed è piacevole sentirne parlare con la modestia che lo contraddistingue. Ha fatto parte di un gruppo di campioni che hanno scritto la storia di questo sport a Nettuno, eppure si è messo in gioco sui campetti di periferia insieme a ragazzini di belle speranze. È sceso dalla “collinetta”, ed è salito in “cattedra”, semplicemente, come ha sempre fatto. Un bel giocatore, ma soprattutto una bella persona!
Un’ottima carriera, con qualche trofeo in bacheca. Come è andata?
“Dopo la trafila delle giovanili, Giampiero Faraone mi fece esordire in prima squadra col Nettuno, era il 1990 e avevo appena diciott’anni. L’anno successivo, giocai ad Anzio, ma a inizio campionato mi infortunai al gomito perdendo tutta la stagione. Poi di nuovo a Nettuno dove son rimasto fino al 1999. In seguito feci un anno a Messina, due col Nettuno2, una stagione a Viterbo, tre col Rosemar Grosseto, poi Modena, e infine ho chiuso la carriera col Nettuno2 fino al 2009. È stata una bella storia, vent’anni di baseball, con gli scudetti del ’90, ’93, ’96, ’98, che mi hanno ripagato con grandi soddisfazioni, al di là di qualche aspetto meno piacevole che fa parte dello sport, che ti dà tanto ma ti toglie anche qualcosa. Per esempio, mi sarebbe piaciuto vivere la mia maturità sportiva ancora con quel grande Nettuno, e invece a 28 anni ho cominciato a girare per l’Italia, quando ero all’apice della mia esperienza come lanciatore. Però tutto sommato il saldo è ampiamente positivo.”
Qual è il ricordo più piacevole e quello che ti brucia ancora, legati alla tua carriera?
“Guarda, nel ’95, con la regola dell’Under23, sono stato il lanciatore più vincente in Italia con uno score di 14 vittorie e solo 2 sconfitte, avevo 23 anni ed è stata una bella soddisfazione. Poi, invece, l’anno successivo c’è stata la delusione della mancata partecipazione alle Olimpiadi di Atlanta; avevo fatto tutta la selezione preolimpica, arrivando vicinissimo a quel traguardo, ma non superai l’ultimo test. Peccato, mi sarebbe piaciuto tanto vivere quell’esperienza, ancora oggi sono rammaricato. Del mio ultimo periodo, invece, ricordo piacevolmente gli anni col Rosemar e col Viterbo, due ambienti dove sono stato benissimo e con ottimi risultati.”
Adesso lavori con i giovani. Che tipo di sensazioni provi?
“Bellissime! Lo scorso hanno, da allenatore, ho vissuto delle sensazioni incredibili, che non avevo provato neanche da giocatore. Aver lavorato tutto l’anno con i ragazzi, e poi vederli giocare le finali sul campo, ti dà una soddisfazione indescrivibile, che ti ripaga di tutto l’impegno, delle fatiche. Poi loro sono particolari, sembra che non apprendano, invece poi durante le partite seguono le indicazioni perfettamente. Sono speciali.”
Quali sono le maggiori difficoltà dei ragazzi di oggi nel fare sport?
“Noi eravamo molto più sciolti, perché giocavamo per strada tutto il giorno; oggi, purtroppo, riscontro molte difficoltà nella coordinazione fisica, nei movimenti, e in questo sport è fondamentale sapersi muovere bene. Noi lavoriamo molto su quest’aspetto, con degli esercizi specifici, e pian piano li allineiamo alle esigenze del gioco. Io e Alessandro Colaceci curiamo molto anche i rapporti comunicativi, cercando di stabilire delle regole ben precise, evidenziando il concetto di squadra, l’impegno, ma con la giusta flessibilità, lasciando lo spazio anche al divertimento. È difficile, stiamo parlando di ragazzini di 10/12 anni.”
Sei soddisfatto dei risultati ottenuti lo scorso anno?
“Sono contentissimo, anche se avremmo potuto ottenere di più. C’è il rammarico di quella partita persa in finale, dove una battuta finita in foul ha cambiato la storia del nostro cammino. Purtroppo lo sport è anche questo, ma niente ci può far cambiare la convinzione che abbiamo fatto una stagione straordinaria, e i ragazzi meritano tantissimi complimenti. Pensiamo di aver lasciato qualcosa di positivo nel loro percorso sportivo, che metteranno a frutto col tempo.”
Cosa ti aspetti da questa stagione con un nuovo gruppo di giocatori?
“Abbiamo un gruppo di ragazzi nuovi, che spero riescano subito a integrarsi con quelli che già erano con noi lo scorso anno. Penso che riusciremo a creare una buona squadra, poi i risultati dipenderanno dalla nostra crescita e da quello che troveremo strada facendo. Quella dei Ragazzi è una categoria che riserva sempre delle sorprese, per via dell’età giovanissima dei protagonisti, speriamo di non trovare dei “mostri” tra le squadre avversarie.”
Torniamo alle tue origini. Come ti sei avvicinato a questo sport?
“Come tutti i ragazzi di Nettuno; mio padre era un grande appassionato di baseball e ci portava alle partite, mio fratello maggiore già giocava, e da lì è iniziato tutto, e non è ancora finito. Dai 6 ai 38 anni giocatore e adesso allenatore in Academy.”
Che tipo di rapporto hai con l’ambiente sportivo di Nettuno?
“Nettuno è sempre stato abituato a vincere, però non c’è esasperazione. Noi abbiamo fatto dieci finali perdendone sei, eppure eravamo apprezzati lo stesso. C’era quella pressione giusta dei tifosi, che ti caricavano, e a me faceva piacere vedere lo stadio pieno. Io ho la cultura del lavoro, se ti alleni bene i risultati arrivano, e il pubblico può condizionarti relativamente, poi noi eravamo abituati a queste tensioni.”
Che ne pensi del baseball attuale?
“È un peccato che sia calato l’interesse verso questo sport; l’unica soluzione per uscirne è cercare di far innamorare di nuovo questi ragazzi, per ridare linfa ed entusiasmo ad un gioco che è bellissimo. Io da piccolo avevo l’aspirazione di giocare col Nettuno, e quando incontravo i campioni per strada mi sembrava come di vedere Messi; giocavamo con palle di carta accartocciata, e il baseball ce l’avevi dentro l’anima. Oggi i giovani non hanno queste sensazioni, e dovremmo fare in modo di ricreare certe aspettative, portandoli in campo, con le famiglie, gli amici, per ricostruire un futuro insieme a loro. Non vedo altre formule miracolose per risolvere il problema.”
Hai dei ringraziamenti da fare, per quella che è stata la tua vita sportiva?
“Sicuramente mio padre, perché è grazie a lui che è nato il mio amore per il baseball. Dal punto di vista tecnico, invece, Manuel Cortina, coach cubano, ci ha cambiato tantissimo nella mentalità; poi Bob Galasso, che cambiò il nostro modo di stare in campo; però, sostanzialmente devi essere tu a trovare le motivazioni per raggiungere i tuoi obiettivi, sacrificando i divertimenti per lo sport. Io non andavo con gli amici in discoteca, ma non mi pesava, perché giocare mi piaceva di più. Dipende tutto da te stesso, a prescindere da tutto il resto.”
Cosa rappresenta per te il baseball?
“Una gran parte della mia vita. Mi ha dato la possibilità di viaggiare e conoscere tanta gente. Una lezione di vita, vissuta insieme a un gruppo di compagni.”
Se dovessi descriverti?
“Sono una persona semplicissima, innamorata di uno sport che mi ha dato tanto, e a cui sto cercando di restituire qualcosa attraverso questi ragazzi.”