19 Aprile 2024

di Roberto Minnocci  – 

“Intervista a Mauro De Rossi, tra presente, passato e futuro.”

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Oggi incontriamo Mauro “Jack” De Rossi, uno dei lanciatori più longevi del baseball italiano. Una vita passata sui campi, in particolare sopra la zona più nevralgica del diamante, il monte di lancio. Pitcher mancino con dei numeri importanti in carriera nella massima serie, tra Anzio e Roma. Oggi allenatore di successo nelle squadre giovanili, dove ha conseguito importanti risultati a livello nazionale. Quest’anno ha collaborato con l’Academy Nettuno Baseball, mettendo subito in risalto le sue qualità tecniche e le notevoli doti umane. Un bel personaggio del nostro baseball, che in questa lunga intervista ci parla del suo percorso sportivo, dei ricordi, ma soprattutto delle sue emozioni. Rilassatevi cinque minuti e leggetela tutta, ne vale veramente la pena.

Cominciamo con l’attualità. Sei uno dei Coach del team Allievi Academy, che ha disputato la finale dei playoff 2016. Come è andata?

“Obiettivamente credevo andasse peggio, però tutto sommato ce la siamo giocata, e comunque è stato importante esserci arrivati. Siamo stati condizionati da qualche errore di troppo in apertura, che è stato decisivo nella prima partita, e in una finale gli errori si pagano. Nella seconda, invece, siamo stati sul pezzo fino alla fine, ma ci è mancata la capacità di restare concentrati nei momenti di difficoltà, mentre gli avversari sono stati più bravi di noi, sotto questo punto di vista. C’è qualche rammarico per queste due sconfitte, che mi sento addosso, perché quando le cose non vanno bene la responsabilità è sempre di chi dirige. Non voglio cercar scuse, però noi siamo questi, e purtroppo non abbiamo l’abitudine alle partite importanti; i ragazzi sono cresciuti, nonostante non abbiano avuto una casa dove allenarsi con continuità. Ma va bene così, alla fine dei conti la stagione non è stata negativa.”

Cosa manca ai giovani d’oggi, in rapporto ai tuoi tempi?

“Oggi manca la strada. Noi avevamo solo quella, mentre adesso i giovani hanno tutto. Dobbiamo adattarci a fare sport con questo tipo di materiale umano disponibile, adeguando i metodi di lavoro a questi ragazzi troppo “apparecchiati”; bravissimi, ma che non riescono a seguire i ritmi che avevamo noi ai nostri tempi. Oggi i giovani non sfruttano neanche la metà del potenziale disponibile; non hanno quello spirito di sacrificio che li aiuterebbe a tirar fuori il meglio da loro stessi. Io ci provo spesso a stimolarli, ma non tutti riescono a seguirmi.”

Parliamo un po’ della tua carriera di lanciatore mancino e dei tuoi trent’anni di baseball. Sei soddisfatto?

“Si abbastanza soddisfatto. Ho giocato quasi vent’anni in serie A, con Anzio e Roma, poi ho girato varie squadre. Non sono stato un fenomeno, e i miei successi me li son dovuti guadagnare lottando. Pensa che le mie più belle partite le ho “tirate” dopo i trentacinque anni, perché ogni volta pensavo che fosse l’ultima, e invece sono arrivato fino a quarantaquattro anni, vincendo la mia ultima gara, 2-1, contro il Nettuno! Ho giocato tutta la vita con squadre operaie, e sul monte non potevi permetterti il minimo errore se volevi vincere; quando rientravo nel dugout mi isolavo lontano da tutti, per mantenere la concentrazione e stare sempre in partita. Quest’atteggiamento mi ha fatto crescere mentalmente, e mi ha dato forza nelle difficoltà, perché quando stai “lassù” sei da solo e nessuno può aiutarti oltre a te stesso. A quarantuno anni ho voluto mettermi ancora in gioco, tornando in serie A con l’Anzio; si giocava con il “legno” e ho tirato una stagione da centoventi inning, con nove partite complete e diverse vittorie. Gli anni successivi sono stati i migliori della mia carriera, scoprendo con sorpresa che il baseball con il legno era un altro sport; insomma, mi son tolto molte soddisfazioni, nonostante l’età.”

Hai lanciato per una vita, 840 inning in massima serie, oltre a tutto il resto. Come va ‘sto braccio mancino?

“Ancora regge il BP. Ma per mantenerlo in efficienza ho dovuto curare molto la preparazione fisica, in alcuni periodi facevo un’ora e quaranta di corsa, ogni giorno. Poi è fondamentale perfezionare la meccanica di lancio, se non ti muovi bene non vai lontano e ti fai male, è un mix di gambe, addominali, tecnica e testa. In partita cercavo di utilizzare la curva solo dopo il terzo o quarto inning, e lì diventavo un altro lanciatore, dovevi saperti gestire per tirare più a lungo possibile. Non avevo una gran palla e cercavo di prendere i battitori “per fame”, variando molto i lanci e giocandoli dal punto di vista psicologico. Una volta, a un giocatore di “colore” del Nettuno, di cui non ricordo il nome, gli dissi: ti tiro tre dritte! Lui era tranquillo e sicuro di se stesso; lanciai tre palle in mezzo al piatto, mettendolo strike out; rimase a guardare ogni lancio senza mai girare, perché aspettava sempre la curva e invece lo fregai. Insomma ci vuole tanto lavoro, fisico e mentale per restare a buon livello.”

Da nettunese, come vivevi i derby tra Nettuno e Anzio in quegli anni?

“Io giocavo con la mia squadra e cercavo di dare il meglio. A quei tempi il pubblico era numeroso e l’atmosfera era molto calda e ti lascio immaginare gli sfottò a volte anche pesanti. Il Nettuno è sempre stato una squadra più attrezzata rispetto a noi, però eravamo tutti molto motivati; ne ho persi parecchi, ma ne ho anche vinti tre, uno con la Roma e due con l’Anzio. A volte ci hanno fatto molto male, però spesso gli abbiamo dato filo da torcere.”

Quale è il ricordo a cui sei legato maggiormente, nella tua vita sportiva?

“Non c’è un ricordo particolare, la cosa che mi piace di più è l’emozione di entrare in campo, e questa sensazione piacevole la porto con me da sempre, perfino oggi. Poi, se vuoi ti racconto il mio esordio; è stato indimenticabile, avevo sedici anni e giocavamo a Rimini, allora sapevo solo tirare forte; faccio il caricamento del mio primo lancio in serie A, sarà stata l’emozione, ma sbattei col guanto sul ginocchio, facendo cascare la palla e pure il guantone; ho iniziato così, immagina le risate. Poi, mi viene in mente una gara contro il Bologna, che vincemmo 9-8; al nono c’erano tre uomini in base, due out e conto pieno; feci strike out sull’ultima palla, vincendo la partita, con 190 (centonovanta) lanci sul groppone, tirando tutto l’incontro; ricordo che all’ultimo inning, sul 9-7, Carlo Morville venne sul monte e mi disse: come stai? Io risposi: secondo te, come sto? Oggi, o esco vivo oppure muoio qua sopra! Andò bene per fortuna.”

Invece il tuo maggior rimpianto, quale è stato?

“Non ho grossi rimpianti, ci sono state circostanze specifiche che sarebbero potute andar meglio, ma fanno parte dello sport. Forse, da nettunese, ci potrebbe essere il rammarico di non aver giocato con il Nettuno, e questo è stato un dispiacere; alcune situazioni particolari e dei malintesi legati al mio cartellino, hanno impedito la realizzazione di questo desiderio, però va bene così, sono contento lo stesso del mio percorso.”

Adesso, come coach sei più esigente o più permissivo?

“Non sono un allenatore duro, mi piace parlare con i ragazzi. Preferisco spiegare le situazioni, per dar loro le motivazioni e la consapevolezza di quello che stanno facendo, attraverso il dialogo e il rispetto. È il mio carattere, non sono capace a imporre le cose, ma voglio che i giocatori arrivino a capirle confrontandoci.”

Come vedi il futuro del baseball?

“Non sono molto ottimista, vedo sempre più sfiducia e meno attenzione verso il baseball. Ci vorrebbero più squadre, per giocare di più. Riportare le piazze storiche in un campionato più allargato; la serie A federale attuale è più interessante della IBL e più rappresentativa. E poi basta con ‘sti “americani”, siamo in Italia, diamo più opportunità ai nostri giocatori. Di stranieri ne servono uno o due al massimo, pochi ma buoni. Ripeto, si deve dare spazio ai prodotti del vivaio, che per fortuna è ancora vivo, investendo su di loro per il futuro.”

Cosa c’è, invece, nel tuo futuro?

“Sono un po’ stanco, però poi la passione mi riporta in campo. È difficile lavorare con queste generazioni, che vivono i disagi particolari di questa società, però è proprio questa condizione che mi da le motivazioni; è gratificante fare sport con i giovani, cercando di dar loro dei valori importanti, aiutandoli nella crescita, non solo sportiva, ma anche umana. Ed è da questi presupposti che riparti nei momenti di crisi, con il baseball, insieme ai ragazzi.”

Cos’è il baseball per Mauro De Rossi?

“Per me il baseball è stato la salvezza! Anche se ha condizionato la mia vita, nel lavoro e in parte nella famiglia. Però mi ha dato tanti valori positivi, che mi hanno formato come uomo. Questo sport ancora mi emoziona, guardando semplicemente un film, o incontrando un mio giocatore, che mi dice di ricordare ancora le mie parole. Queste sono vittorie dal valore inestimabile. I ricordi che lasciamo negli altri valgono più della fama, dei successi sul campo. Per lasciare il segno nella vita, devi restare nei ricordi. E chi rimane nei ricordi non morirà mai!”